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Modificato il07/03/2013

Il Lato buio della luna

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dsotmDopo 40 anni esatti dalla sua pubblicazione (01/02/73), Dark Side of The moon resta l’opera per eccellenza, di quella che negli anni ’60 in Gran Bretagna definivano ”popular music”. Un’esperienza totale che che colpisce e penetra l’animo e la carne dell’ascoltatore in ogni senso.
 
 
Musica, immagini, suoni sgradevoli, odori, sensazioni, voci la ”silenziosa disperazione” della vita quotidiana in 42 min. e 57 secondi di immersione nel mondo Floyd. Le paranoie e i pensieri dell’Io, come anche le piccole e grandi cose del mondo, sono viste dalla lente di ingrandimento del ”lunatic” nella sua visione distorta acidata e perversamente inquietante della realtà, magari seduti sulla luna, su quei lati di cui non vogliamo ammettere l’esistenza, in cui non c’è luce, non c’è vista, non c’è conoscenza razionalmente intesa.
 
 
 
Gli incubi di Waters ci trascinano con forza all’interno dell’album, il battito di cuore si sostituisce al nostro, i respiri sono offuscati dai suoni e dalle voci di ”speak to me”, mentre ci si perde ficcando l’occhio, nell’eterna e profonda copertina dell’album con quel prisma a fondo nero frutto del genio di Storm Thorgenson, intrappolati al suo interno per anni senza poterne decifrare pecche o trovare vie di fuga.
 
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La prima fase si interrompe dopo pochi secondi, ormai siamo dentro. L’urlo di Clare Torry ci riporta a respirare a pieni polmoni, percepiamo sinesteticamente il dolore del primo respiro dopo essere usciti dal ventre materno, osserviamo davanti a noi la vita e il suo senso inquietante “Run, rabbit run, dig that hole, forget the sun, and when at last the work is done, don’t sit down it’s time to dig another one”. La percezione del mondo ci porta nella vorticosa ”on the run”, le paure del fragile Wright riecheggiano nelle nostre menti, ricordano suoni di altre dimensioni e tempi, mixate genialmente da Alan Parson, rintracciabili nei nostri incubi più segreti e intensi. Un’esplosione di ticchettii e sveglie assordanti ci scaraventano verso la realtà, dura ed arida, ”time” ci fa viaggiare, ruotando nella dimensione del tempo su noi stessi, sotto le rullate senza fine di Nick Mason, per poi lanciarci in una folle corsa osservandoci dall’alto. Il nostro invecchiare, le nostre assurde concezioni, le infinite giornate da buttare via, trascinati dall’epico assolo di David Gilmour che dolcemente poi ci fa cadere  sulla poltrona di casa ”home, home again”. Hai paura di morire a quel punto vero? Sembra suggerirti una voce che non udirai, a cui un’altra risponde “And I am not frightened of dying, any time will do,I don’t mind. Why should I be frightened of dying? There’s no reason for it, you’ve gotta go sometime”.
 
Wright ci lascia lentamente affogare nel mare della morte con il suo dolce tocco, mentre Clare Torry percuote il nostro corpo, ci ricorda l’orgasmo, il piacere, l’amore e la nascita, ma allo stesso tempo la nostra fine. La lap steel guitar di Gilmour ci tagliuzza e trafigge con piccole frecciate ovunque, quando stiamo per cadere a terra, c’è il richiamo del mondo che ci vuole ancora con se, ancora per un po’. Tintinnii qui e li e ”money” ci fa ripercorrere l’illusione della fama, del successo, ci fa sentire fighi, potenti, quasi soffocati da montagne di caviale, il cui apice arriva con gli assolo di Dick Parry e Gilmour. L’apice del disgustoso benessere e di tutte la tutte assurde cazzate ”goody good bullshit”. La riflessione su chi siamo noi e chi siano loro si presenta prepotentemente, con grandissima forza, nella dolce e ipnotica “us and them”, in cui Waters raggiunge il massimo del suo lirismo, giungendo alla conclusione che tutto ciò in realtà ”it’s a battle of words”, circondati da uomini in uniforme ovunque, privi ormai di volti e coscienza, numeri e strutture basate sul nulla,” I’ve got things on my mind For wants of the price of a tea and a slice The old man died”.
Mentre le parole della coscienza aleggiano ancora in noi, fluttuiamo sospesi in ”any color you like”. Oormai gli occhi del ”lunatic” sono i nostri occhi, percepiamo i suoi suoni, le sue risate, le sue paure come nostre.
 
Torniamo nella nostra stanza, nel nostro prato, ricordando giochi, colori e sensazioni, sentendoci osservati da lui o meglio da noi stessi in ”Brain Damage”. Tutti ci rincontreremo sul lato oscuro della luna ci dice, per la prima volta nomina la luna nell’album, ma per noi è come averla sempre vista e fatto un giro di essa. L’eclipse finale ci libera definitivamente. Lascia esplodere i nostri cuori in lacrime copiose che schizzano ovunque, perché lo intuiamo ”everything under the sun is in tune but the sun is eclipsed by the moon”.
 
 
Il battito di cuore si placa, i nostri respiri si dilatano, torniamo a vivere alla luce del sole guardandoci allo specchio spaventosamente più uguali di prima, ma c’è una voce “There is no dark side of the moon really. Matter of fact it’s all dark”. Sorridiamo amaramente e torniamo a scavare buche ricordandoci della luna e del suo lato oscuro di tanto in tanto, riosservando quel prisma, da 40 anni ormai.
 

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